Il Dovere decisorio del giudice

Tratto dal Capitolo 4 del Mandrioli, volume I

 

1.      Il contenuto del dovere decisorio: il giudizio.

Esiste nel nostro ordinamento un preciso dovere dell’organo giurisdizionale (giudice) a prestare la tutela di cui è richiesto mediante la proposizione dell’azione.

Ciò si traduce nel giudizio di merito nel compiere tutti gli atti che conducono alla pronuncia sul provvedimento sul merito.

Tale principio è scolpito nel codice all’art. 112 cpc per cui “il giudice deve decidere su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”, principio conosciuto anche come corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

L’esistenza della domanda infatti fonda il diritto delle parti ad una pronuncia sul merito piuttosto che sul processo. Quest’ultimo tipo di pronuncia si avrà di fronte ad una domanda priva di una condizione dell’azione od invalida (aspetti cd. formali).

L’operazione del giudizio si può pertanto scindere in due momenti:

1)      L’enunciazione in astratto della portata della norma (che qualifica la fattispecie, qualificazione che potrebbe anche essere diversa da quella enunciata dalle parti) – giudizio di diritto;

2)      Riscontro nella fattispecie concreta dei presupposti di diritto enunciati dalla norma – giudizio di fatto.

Da questi due elementi nasce il giudizio del giudice (cd. sillogisma) per cui viene applicata la norma al fatto concreto al fine di apprestare (o meno) la tutela richiesta.

 

2.      La disponibilità dell’oggetto del processo (112)

Il giudizio non è, generalmente, una attività spontanea ma dovuta sulla base della garanzia costituzionale del diritto all’azione che permette di rendere attuale e concretizzare la tutela giurisdizionale.

Corollario della circostanza che l’attività del giudice è dovuta in funzione di una domanda, è che la stessa attività è limitata dalla domanda stessa. Ne è possibile che il giudice si astieni da ciò (omissione di pronuncia) o vada oltre petitum (vizio di ultrapetizione).

Già dall’art. 2907 c.c. risulta chiaro che l’attività del giudice viene in essere solo dopo la proposizione di una domanda di parte in quanto la tutela dei diritti è prestata su “domanda di parte” e solo eccezionalmente su istanza del PM o d’ufficio.

Tale regola si fonda sul principio della disponibilità della tutela giurisdizionale che, a sua volta, implica una disponibilità del diritto sostanziale in quanto, chiedere o meno la tutela di un diritto, è un modo di disporne.

Ciò è inoltre confermato dalla circostanza che i casi in cui la tutela è richiesta dal PM, corrispondono proprio alle ipotesi di diritti indisponibili, mentre la totalità delle ipotesi di esercizio d’ufficio del potere sono previste dalla legge fallimentare (dichiarazione di fallimento) o come oggetto di provvedimenti di volontaria giurisdizione (tutela incapaci).

Fenomeno diverso è invece la rilevabilità d’ufficio del difetto di determinati requisiti o presupposti di diritto sostanziale (ad es. nullità contratto) seppur sempre coordinato con il principio della domanda.

Queste enunciazioni trovano infatti conferma nel fondamentale principio della domanda, di cui all’art. 99 cpc, per cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente”.

Mentre infatti l’art. 2907 c.c. esprime il fondamento di diritto sostanziale della tutela ad opera del giudice, non può considerasi un pericolo doppione dell’art. 99 cpc in quanto essa stessa presuppone uno stimolo esterno che si concreta nella domanda, che l’art. 99 cpc specifica sottolineando l’essenzialità e l’ineliminabilità dello stimolo stesso (nemo iudex sine actore; ne procedat iudex ex officio).

Pertanto sia l’art. 99 che l’art. 112 cpc si riferiscono alla dipendenza del dovere decisorio all’iniziativa di parte che, per il solo fatto di aver proposto una domanda, acquista il diritto al processo (che si trasforma in diritto ad un provvedimento sul merito ove ve ne siano i requisiti formali), ed al relativo giudizio.

Chi propone la domanda, vincola e limita il giudice a pronunciarsi su tutta l’estensione della domanda e solo su di essa: in questo senso si parla di disponibilità dell’oggetto (sostanziale) del processo.

Esaminiamo ora come opera tale limite.

In primo luogo tale vincolo si manifesta con riguardo al tipo di azione esercitata: se è di accertamento, di condanna o costitutiva, vincolando quindi il relativo provvedimento (il vizio di ultrapetizione non è rilevabile d’ufficio ma è sanabile per effetto della mancata impugnazione). Si ritiene tuttavia che la domanda di nullità includa quella di annullamento e la domanda di reintegrazione in forma specifica includa quella di risarcimento per equivalente (ma non il contrario).

In secondo luogo il limite attiene al contenuto del giudizio. Tuttavia bisogna distinguere il giudizio sul diritto da quello sul fatto. Mentre infatti la volontà della legge è astratta e generica, l’attore dovrà invece individualmente e concretamente indicare ed allegare tutti i fatti costitutivi a fondamento della propria richiesta. Pertanto mentre nel giudizio sul diritto il giudice potrà applicare le norme che ritiene più opportune, compresa la possibilità di mutare la qualificazione giuridica, solo nel giudizio sul fatto sarà vincolato dai fatti indicati specificatamente dalla parte.

Questo principio risulta altresì dal 113 cpc che, prescrivendo che il giudice deve seguire le norme di diritto, si riferisce genericamente a tutte le norme di diritto, indipendentemente da quelle richiamate nella domanda (cd. Iura novit curia). Il giudice è pertanto libero di scegliere autonomamente la norma da applicare.

In ossequio al dovere di collaborazione del giudice, si ritiene che qualora il giudice ritenga di dover applicare una norma diversa da quella indicata dalle parti, dovrà prima provocare il contraddittorio su tale applicabilità (inosservanza che non comporta comunque la nullità).

Particolare riguardo si dovrà poi avere delle norme di diritto internazionale privato e le norme Comunitarie per cui, anche d’ufficio, il giudice potrà disapplicare la normativa interna a vantaggio delle norme della UE, data l’efficacia diretta ed immediata dei Regolamenti.

Altro problema al riguardo consiste nella conoscenza del giudice del diritto straniero e, più in generale della sua effettiva conoscenza del diritto.

Relativamente alla consuetudine, è orientamento consolidato della giurisprudenza affermare che la parte che invoca la consuetudine, ha anche l’onere di provarne l’esistenza; tuttavia è potere del giudice applicarla in quanto da esso conosciuta.

Quanto al diritto straniero, l’art. 14 L. 218/95 prescrive che l’accertamento della legge straniera è fatta d’ufficio dal giudice che, al riguardo, può avvalersi di informazioni acquisite dal Ministero o da esperti; la parte interessata ha tuttavia l’onere dell’allegazione degli estremi della norma che si vuol far valere. La legge straniera è applicata secondo i propri criteri di applicazione e interpretazione. Si ritiene che, anche verso la norma straniera, operi il principio Iura novit Curia.

E’ pacifico che la normativa che il giudice dovrà applicare sarà quella in vigore al momento dello svolgimento del processo (pronuncia), così che il giudice dovrà d’ufficio tener conto dele norme sopravvenute.

Si ritiene infine che il giudice, nell’interpretazione della legge e nell’adattamento al caso concreto, non possa in alcun modo superare i limiti posti dal legislatore (cd. interpretazione creativa) ma dovrà unicamente contestualizzare il fatto così da far aderire nel miglior modo possibile la norma di diritto al fatto concreto.

Parte della dottrina ha inoltre messo in luce come nei Paesi di Common Law, il vincolo al precedente giurisprudenziale non sussiste più sul piano formale e si regge solo su basi della tradizione e della consuetudine, mentre nei Paesi di Civil Law, pur non esistendo formalmente, vi è sempre più la tendenza di tener conto del precedente per un’esigenza di uniformità del diritto e non contraddittorietà delle pronunce (cd. diritto vivente) alla luce del principio di uguaglianza e discostandosi dall’orientamento conforme solo quando tale differenza non appaia “irragionevole”. Un vincolo, seppure non insuperabile ma certamente di grande importanza, è dato poi nel nostro ordinamento dalle sentenze della Cassazione in Sezione Unite, in virtù della sua funzione monofilattica.

Quanto alla immodificabilità della domanda e, sulla possibilità di affermare e allegare fatti costitutivi o lesivi non proposti dalla parte, tale principio è implicitamente affermato nell’art. 112 cpc; la dottrina suole tuttavia distinguere i fatti principali da quelli secondari o strumentali: questi ultimi potrebbero essere posti a fondamento della decisione anche se non allegati.

Dalla Allegazione (necessaria) dovrebbe poi essere tenuta distinta la contestazione (solo dovuta).

Pertanto ai sensi dell’art. 112 il potere di determinare l’ambito oggettivo del processo, in modo vincolante per il giudice, spetta a chi propone la domanda che, contestualmente o comunque entro le preclusioni di legge, deve affermarne ed allegare i fatti costituitivi, fermo restando il potere del giudice di applicare liberamente le norme di diritto che ritiene opportune.

Qualora su una certa qualificazione giuridica si sia discusso nel corso del giudizio e la pronuncia su di essa non sia stata oggetto di impugnazione, può verificarsi su essa un’acquiescenza che dà luogo a una preclusione nella qualificazione – cd. giudicato implicito, rilevabile d’ufficio anche in Cassazione (a differenza del giudicato esterno la cui interpretazione invece è riservata al giudice di merito).

La libertà nella qualificazione giuridica del giudice può infine trovare un limite nel dovere del giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio meritevoli di trattazione ex 183 comma 4.

 

3.      La pronuncia secondo equità (114)

Vi sono ipotesi in cui il giudice decide non secondo la legge (113) ma secondo equità (113 e 114).

La lite (o controversia) sorge normalmente non già con riferimento diretto alle norme ma su determinati beni della vita, a cui le norme stesse si riferiscono: a tal proposito infatti la lite è stata definita come un “conflitto di aspirazioni su beni della vita”.

Vi sono pertanto ipotesi tassative in cui il giudice può pronunciarsi non secondo le tipiche norme di diritto ma secondo equità, intesa come regola di giudizio e giustizia del singolo caso.

Le ipotesi in cui il giudizio di equità è doveroso, e non solo una possibilità, concernono ipotesi di marginale importanza sia per l’oggetto sia per il valore della causa, tra cui bisogna ricordare:

1-      I Giudizi del Giudice di Pace, entro un valore di 1.100 €, con esclusione comunque dei contratti conclusi ex 1342 c.c. (113 comma 2)

2-      Quanto le parti sono concordi nell’attribuire al giudice il potere di giudicare secondo equità, purchè si tratti di diritti disponibili.

3-      E’ prevista la cd. equità integrativa, ossia il ricorso all’equità per integrare la portata delle norme in determinati casi.

 

4.      Il Principio della disponibilità (115) e della libera valutazione delle prove (116)

Ex art. 115 il giudice deve porre a base del proprio convincimento le prove dedotte dalle parti, salvo ipotesi espressamente previste (iudex secundum alligata et probata iudicare debet).

Tuttavia il vincolo del giudice anche alle prove addotte dalle parti è completamente diverso da quello del vincolo alla domanda: mentre infatti quest’ultimo esprime il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che deriva dalla disponibilità dell’oggetto processo stesso delle parti, il vincolo probatorio indica unicamente il limite del giudice nel servirsi delle prove.

Mentre pertanto il sistema inquisitorio (in parte adottato nel processo penale) permette al giudice di ricercarsi ex officio qualsiasi prova ritenga utile, il processo civile è caratterizzato dal sistema dispositivo delle prove, attenuato dalle eccezioni previste nella legge stessa (e tutt’altro che secondarie).

Lo stesso art. 115 comma 2 prevede inoltre che il giudice possa porre a fondamento delle proprie decisioni “le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (fatto notorio)”.

Altre ipotesi di poteri inquisitori del giudice civile sono:

-          L’art. 213 che permette al giudice di richiedere ex officio alla PA informazioni scritte;

-          L’art. 118 relativa all’ispezione di cose o persone;

-          L’art. 117 che consente anche ex officio l’interrogatorio libero delle parti (da cui può trarre i cd. “argomenti di prova”);

-          L’art. 231 ter che premette al giudice monocratico di disporre d’ufficio la prova testimoniale di persone informate dei fatti.

Tuttavia attenzione particolare deve rivolgersi al riguardo al procedimento sul lavoro, che è caratterizzato da molteplici elementi di carattere inquisitorio.

Ex art. 116 comma 1 le prove sono valutate dal giudice “secondo il suo prudente apprezzamento”, ossia liberamente. Esistono tuttavia delle prove che obbligano il giudice ad una prestabilita valutazione: le cd. prove legali.

Il richiamo al prudente apprezzamento implica una sussunzione e valutazione delle stesse secondo le regole della esperienza che devono essere improntate alla prudenza e quindi secondo una diligenza maggiore rispetto al normale agire.

Il principio del libero convincimento probatorio è spesso richiamato poi dalla giurisprudenza per negare una gerarchia dell’efficacia delle prove, sulla possibilità ed importanza di una valutazione globale, senza necessità ogni volta di un loro esame dettagliato (salvo quelle cd. devisive).

Dai principi di cui sopra, deve essere tenuto distinto il cd. onere della prova, che concerne la preventiva determinazione delle conseguenze della mancanza della prova di una determinata circostanza di fatto affermata, e si esplica nel generale principio dell’art. 2697 c.c. per cui è colui che afferma l’esistenza o meno di un dato fatto che ne deve dare prova.

 

5.      Impulso di parte ed impulso d’ufficio (PM)

Anche il nostro ordinamento, pur ispirato al principio dell’impulso ad opera di parte, conosce diverse e molteplici ipotesi di impulsi d’ufficio. Ciò è la naturale conseguenza del principio della disponibilità del processo stesso ad opera delle parti e, solo per ipotesi marginali, di tutela giurisdizionale d’ufficio (così Cfr. art. 2907 c.c.).

Il nostro processo civile è interamente basato sul principio di parte.

Nella ipotesi quindi di diritti indisponibili il processo procederà non ex officio ma su impulso del PM (che persegue la tutela degli interessi pubblici).

 

6.      Principio del Contraddittorio (101) e diritto alla difesa (24 Cost.).

Il principio del contraddittorio è posto dall’ordinamento come una condizione essenziale all’esercizio del potere del giudice ed allo svolgimento del processo stesso per cui, ex art. 101, “il giudice non può statuire sopra alcuna domanda se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa”. Si tratta quindi di una condizione generale dell’esercizio dell’azione, come dimostra la sua collocazione sistematica, espressione del principio alla difesa costituzionalmente garantito.

Per “parte contro la quale la domanda è proposta” si intende il soggetto passivo della domanda, che è colui che dovrà subire le conseguenze del provvedimento del giudice (essendo la domanda la richiesta del provvedimento nel merito).

Tale soggetto di regola coincide con il soggetto passivo del rapporto sostanziale, cos’ come l’attore è il soggetto attivo del rapporto sostanziale e processuale.

L’art. 101 prescrive pertanto che il convenuto (soggetto passivo) debba essere regolarmente citato, consistente nella vocatio davanti al giudice con l’indicazione del tempo e del luogo, mediante “consegna ufficiale” (notifica) di copia autentica della citazione.

Proprio quindi per questo motivo il giudice non può pronunciarsi sul merito allorquando il convenuto non sia stato messo nella possibilità di difendersi e di presentarsi davanti al giudice, diritto questo (alla difesa) così importante e fondamentale che viene definito inviolabile in ogni stato e grado dalla Costituzione (art. 24 e sottolineato dal comma 2 dell’art. 111 per cui ogno processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti a un giudice terzo ed imparziale). L’art. 101 è volto quindi a garantire l’uguaglianza delle parti davanti al giudice, e deve essere intenso non in senso formale ma sostanziale, quindi non come semplice possibilità ma in termini di effettività del contraddittorio (adiatur et altera pars).

La violazione della regola del contraddittorio dà luogo a nullità, rilevabile in ogni stato e grado, salve solo le preclusioni derivanti dal giudicato anche implicito (e salve le ipotesi di accettazione del contraddittorio - Cfr. Cass.).

Il successivo inciso “.. e non è comparso”, posto in relazione con l’intera norma, fa intendere che il requisito della comparizione del soggetto passivo davanti al giudice è considerata dalla legge un requisito sostitutivo e non aggiuntivo alla regolarità della citazione. Pertanto la congiunzione “e” deve essere intesa nella sola ipotesi di irregolarità della citazione, ed avente la funzione di sanatoria della medesima.

Pertanto la comparizione del convenuto davanti al giudice toglie ogni rilievo ad ogni eventuale vizio della citazione (164 comma 3).

 

(Riassunto tratto dal Mandrioli) 

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